"Nuova Filodrammatica Carrucese"
La Nuova Filodrammatica Carrucese nasce nel 1978 dalle "ceneri" di una lunga tradizione teatrale presente nel paese fin dalla metà del '800. A questo proposito, nelle pagine seguenti, si può leggere la storia della passione filodrammatica a Carrù così come l'ha descritta il prof. Ernesto Billò nel libro " Aria 'd Carù" del 1980. Sul finire degli anni settanta vengono proposte le commedie/riviste "Carù 't sei sempre ti" prima e seconda parte e "Parlami d'amore Carrù" intrise di storia e di personaggi locali e dedicate esclusivamente al pubblico carrucese. Tra tutti si distingue un giovane e brillante attore, Massimo Torrelli, che diventerà poi il capocomico e punto di riferimento della compagnia. Vocazione che evidentemente coltivava fin da bambino come si può vedere dalla foto che lo ritrae al suo esordio sulle scene a soli quattro anni. In quel periodo entra a far parte della compagnia anche il cav. Giorgio Pellegrino che curerà la regia tecnica di tutte le rappresentazioni.
Dopo una decina d'anni di silenzio all'inizio degli anni '90 sono state rappresentate alcune riuscitissime sceneggiature, tratte da racconti di Beppe Fenoglio, ambientate in vecchi cortili abbandonati in cui muri, balconi, finestre, erano scenari naturali perfettamente adatti all'ambiente fenogliano.
La compagnia viene fondata ufficialmente con tanto di statuto e iscrizione alla U.I.L.T. ed assume come nome di complemento la curiosa definizione "cui du terlasu". "Terlè" è un verbo della lingua piemontese che si riferisce al movimento rotativo e saltellante della trottola (figura che compare nel logo). Chi ha preso il "terlasu" è quindi una persona che non riesce a stare ferma ed è sempre in movimento proprio come i componenti della compagnia.
Vengono eletti il presidente Pier Luigi Olocco, il vice presidente Pier Luigi Tomatis e il segretario Fabrizio Gaiero (cariche che vengono poi riconfermate negli anni a seguire). Sono poi seguite le prime commedie e, timidamente, la compagnia ha iniziato le proprie rappresentazioni al di fuori delle mura.
Nel 2007, dopo aver anche superato i confini provinciali ed aver ottenuto ottimi riconoscimenti di pubblico e di critica e dopo aver sperimentato commedie scritte in proprio ed aver rappresentato, sempre in lingua piemontese, autori classici della commedia, la Nuova Filodrammatica Carrucese raggiunge il traguardo di 200 rappresentazioni, festeggiando il tutto con un bel calendario celebrativo di tutte le rappresentazioni. Nel frattempo nuove stagioni teatrali, nuovi successi hanno portato ad oggi a superare le 450 rappresentazioni ed altri numerosi riconoscimenti sono pervenuti.
Nel marzo 2017 viene eletto il nuovo direttivo. Massimo Torrelli è il nuovo presidente, Cecilia Costamagna la vice presidente, Fabrizio Gaiero viene confermato come segretario.
La Compagnia organizza inoltre, a partire dal 2000, una rassegna, a cui, nelle edizioni passate, hanno già partecipato numerosissimi gruppi teatrali piemontesi.
L'attività dei componenti della Nuova Filodrammatica Carrucese, svolta in forma di volontariato, è sempre stata comunque disponibile alle forme di aiuto e beneficenza. Numerose sono state le rappresentazioni a titolo gratuito e le donazioni effettuate. A questo proposito vogliamo citare la collaborazione con l'associazione GIROTONDO di Mondovì e con il gruppo AIDO di Ceva.
Infine la Nuova Filodrammatica Carrucese offre al Corriere di Carrù, con altre associazioni del Paese, il patrocinio per l'organizzazione del concorso di poesia "Carù porta d'la Langa".
LA PASSIONE FILODRAMMATICA A CARRU'
da "Aria 'd Carù" (1980) del Prof. Ernesto Billò
Occasione di svago, d'incontro e, anche di piacevole impegno, è stato a lungo il teatro per i carrucesi: in platea od alla ribalta essi hanno sconfitto la tentazione di restarsene passivi e appartati, accostandosi ad una schietta creatività espressa in modi semplici, comunicativi, davvero popolari.
Echi di avvenimenti nazionali, frammenti del mondo contadino e militare, facili spunti farseschi sono passati sulla scena, con qualche punta di retorica, di ingenuità, di faciloneria: da dilettanti volenterosi che riuscivano a divertire proprio perché i primi a divertirsi erano loro.
Un melodramma giocoso e un dramma storico dell'età romantica
Restò sepolta in un cassetto la pur fresca "Angelina", libretto per melodramma giocoso steso con garbo da Carlo Clerico poco dopo il 1820, quando il genere era ormai in declino e la grotta di Bossea, dove l'azione è ambientata, non era ancora in auge.
Ed è improbabile che Giovanni Galli sia riuscito a far imparare a memoria a qualche filodrammatico le lunghe tirate del suo "Edoardo Fassini", un dramma storico di congiura, d'esilio e d'amore ambientato a Livorno e steso con animo infervorato da romantico patriottismo nel 1841: in un periodo, cioè, ancora scomodo per i congiurati ed i patrioti, ai quali Galli si pregiava appartenere.
L'attacco è foscoliano: la congiura è stata scoperta e, mentre l'austriaco è in marcia per punire i ribelli, Edoardo rifiuta ostinato le suppliche della moglie e degli amici perché si affretti a mettersi in salvo su di un amico vapore francese.
EDOARDO: Il fato della Patria è consumato... I miei voti falliva l'evento, ed a noi non resta che un bivio fatale: il peso d'un eterno dolore, o la morte.
VINCENZO: Edoardo, non lo sai? È giunto il terribile Wurten da Vienna. Egli ha immensi poteri, e se ancor qui resti, oh, io tremo per te.
EDOARDO: So tutto: il duca stesso temer deve la presenza di costui. Wurten, generale dell'esercito in Boemia, varcò le Alpi, ed inviato straordinario qui venne per gioire degli aneliti estremi delle sue vittime. Ahi, io fremo in pensare che lo straniero si compiaccia a debellar questa sacra terra, che a contaminarne venga l'aer puro, e alle nostre tavole s'assida, e con riso feroce ancor ci insulti e ci schernisca. lo vorrei che le vivande gli fossero tosco, che ogni persona lo tradisse, che ogni uomo il petto gli aprisse, che a pezzi la salma infame gettasse lungi quanto il pensier può andarne.
VINCENZO: Idea perversa è la tua, Edoardo: il furore t'acceca. Anche i stranieri son nostri fratelli, son figli della Natura istessa, e chi impreca contro il suo simile segna la propria sentenza.
EDOARDO: Amo gli uomini anch'io, e più che me stesso; e vorrei che venisse il di in cui, rotte le barriere di tutte le Nazioni, si conoscesse alfine che abbiamo tutti i medesimi diritti, gli stessi doveri; e che, avvinti popoli con popoli, s'intuonasse il funebre inno all'estinta tirannia, e il canto alla pace ed all'universale riunion delle genti. Ma ciò è un sogno, e non verrà mai. Intanto il più forte il debole fiacca e calpesta, e per indebolirci lo stranier ci divide, e poi le spoglie nostre invola, e ancor ritorna, a divorarci le sostanze ritorna, e onore; e vita presto è a rapirci...
Anche se irrappresentabile, anche se rimasto manoscritto e sconosciuto, anche se privo di particolari pregi letterari, questo dramma riverbera però lo spirito ardente di un'età, e quello dei fratelli Galli: tre giovani dotati e generosi che, muovendo dalla periferica Carrù, non mancarono all'appuntamento con la storia del loro tempo.
La scoperta del piemontese
Poi, lo sviluppo del teatro in piemontese, avvenuto significativamente nell'imminenza della seconda guerra per l'Indipendenza e nei primi anni dell'Unità grazie al villanovese Federico Garelli, al peveragnese Vittorio Bersezio, al capocomico cuneese Giovanni Toselli, accese nuovi estri anche in Carrù, dove sorse una filodrammatica che si cimentò con le farse e le commedie a sfondo storico o addirittura operaio, seppur intrise di paternalismo, di Garelli, e con Il 'L Beu 'd Nata!", di Luigi Pietracqua: una scelta invero profetica. In mancanza di donne che accettassero di calcar le scene, spesso si ingonnellavano i giovinotti, ed i drammi rischiavano di trasformarsi in farse, e le farse in drammi.
Il palco era improvvisato e posticcio, nella vecchia chiesa di S. Giuseppe, fra i drappi rossi e viola orlati d'oro, gli arredi sacri, l'odor d'incensi. Gli spogliatoi degli attori erano nella sacrestia, divisa a mezzadria con la compagnia delle Umiliate. Costumi di scena e cappe gialle di processioni e funerali pendevano appesi agli stessi attaccapanni, e capitava a volte di confonderli.
Intorno al '70: trionfa il "Maritò 'd Luisa"
Fu in questo teatrino d'accatto che, poco dopo il 1870, Carrù applaudì la prima volta il "Marito 'd Luisa", sgorgato di getto dalla mente recettiva e dallo spirito arguto di Celestino Calleri, promettente maestro del luogo, che era allora sui 28-30 anni.
Non molto peregrina la trama, condita con parodie di famose romanze d'opera e con comiche commistioni di italiano e piemontese, ma anche con riferimenti ad avvenimenti dell'epoca così come li visse un soldato-contadino. Il caporale Bastian dla Cassinòta torna al pais dopo anni e anni di naja giù nel Meridione a reprimer briganti e alla presa di Roma, ed è smanioso di sposare la sua Luisa, se non fosse che Luisa, gli dicono, ha già un "maritò".
BASTIAN: Vi ringrazio, o amici, della gentile onestà che mi fate appena che ritorno al nostro paesello, dopo tanti anni che non l'ho -mai più veduto. Vi assicuro che in tutti i giorni del mio servizio militare io non ho mai lassato passare una minuta senza voltare la mente a voi, ai miei parenti e alla mia Luisa, che spero staga bene.
MILI: Luisa a l'è ardì a come 'na siolòta.
BASTIAN: E mio padre e mia madre sono entrambi due in salute? Sono passato a casa ma non li ho veduti, che erano sortiti.
MILI: A son 'd cò ardì come doi s-ciòpèt.
BASTIAN: Voi altri vedo con piacere che siete anche tutti arditi. Per me, grazie al Supremo, non sono mai stato malato, magara che abbia avuto tanto da soffrire, sempre essere contro quei briganti, che vàntava vedere come si aveva del continuo da stare all'erta su quei bricchi delle Calabrie!
GIACO: Parej adess it arivi da le Calabrie?
BASTIAN: No; vieno da Firenze che l'è una città italiana della Toscana: non so se l'avete già sentita a motivare. Sono passato in tanti paesi, ho visitato tante città, che non mi sarìa mai più creduto che l'Italia fosse tanto grossa. Vi conterò poi tutte le cose che ho veduto, per esempio le rovine di Pompei, il Vesuvio di Napoli, la grotta dei cani e millanta altre meraviglie.
TONI: Magara a l'è smiame ben longh 'l temp ch'i 't ses stait soldà!
MARTIN: Che soldà? T'vedi nen che lasagne ch'a l'ha sui brass?
BASTIAN: Figuratevi come mi sarà somigliato lungo a io, che per li torti che mi fa- vano, mi è bisognato filare sette ani avanti di essere passato caporale. E poi pensate a quel miserabile rancio che manco il mio cane l'avrìa mangiato. A proposito, datemi un po' nuove del mio Pomino.
MILI: A l'è mòrt, bonòm.
BASTIAN: (...) Mi rincresce il sangue del cuore, che l'era un cane tanto buono da trifole, e gli mancava macco la parola. Ma lasciamo correre: basta che vi sia ancor io.
MARTIN: Oh, loli sì!
BASTIAN: Cospetto! Vi so dire che ne ho viste delle grise e delle nere; e tra le altre disgrazie avevamo un capitano che l'era un cane vereffettivo, che delle volte sarìa stato il caso... uff!, non vanta che gli pensi. Ma finalmente l'è morto anche lui.
GIACO: A la guèra?
BASTIAN: No, d'una malattia gelatéria. Corpo dell'acquavite! Se non era per lui, io a quest'ora avrìa per lo meno i galloni da sergente.
GIACO: E ti, sesto mai staie a la guera?
BASTIAN: Caspita, se vi sono stato! E mi ho trovato alla presa di Roma; e se non fosse che una palla è venuta a taccarmi nel baracchino e me lo ha dorgnato tutto, mi avrìa mandato a gambe levate.
MARTIN: (Che bel italian 'd Biela!)
MILI: Si ch'it ses sbordite, neh?!
BASTIAN: Come che dici?
MILI: T'as nen avù paura?
BASTIAN: Guarda: sono sempre stato con tanti italiani, lombardi, milanesi, veneti, toscani, fiorentini, napoletani, calabresi, romagnoli, siciliani e via dicendo, che parlavano sempre la madre lingua italiana, e certe espressioni in piemontese non le possio più capire. Tu mi chiami se l'ho avuto paura? Ma gnanca na frisa. Hai da sapere che noi militari stimiamo tanto marciare contro la morte come bevere un cicchetto. Del resto, stariimo freschi!
CIAPELA: Adess, it sesto pì nen bon a parlé piemonteis?
BASTIAN: Dico che ho sempre parlato italiano con tutti, e a rivedersi coi superiori, che guai se scartavo una parola; e non mi potrìa più adattare. E poi io credo che l'italiano è una lingua che mai più niuna ve n'è stata di più bella...
Il qui pro qua del "marito", che altro non era poi che quell'aggeggio "con cui scaldano le man, le gambe, i piè", si trascina fin troppo per le lunghe; ma alla fine tutto viene in chiaro, e il coro può tirare la morale:
Guardé 'n pò certe vòlte ant la vita quante ruse e ciacòte ch'aI taco,
perché as ciapa n'alman per san Giaco, e san Giaco a l'é pià per n'alman!
Sufranin chi v'invischi e v'infiami
per na còsa cha vai gnanca un cito, ricordeve dl'efé del marito,
ricordeve di bailo 'd Bastian!
Da allora il "maritò" fu come una bandiera per i carrucesi, sventolata ogni dieci, vent'anni con un po' di nostalgia e di rinnovato godimento. Sembrava che, nello scriverlo, Calleri avesse tagliato il personaggio addosso a Pippo Vacchetti, o sarà stato Pippo a lasciarsene penetrare così
a fondo: fatto sta che pensare al "Maritò" è pensare a Pippo, e viceversa. Lo tirarono fuori alla vigilia e dopo la Grande Guerra con l'avveduta regia del maestro Carlo Ferrua, presente l'autore quasi ottuagenario, festeggiatissimo; e poi di nuovo nel '36 e nel '45. In questi ultimi anni Pierluigi Olocco, Pierluigi Tomatis e Modesto Candela ne hanno rilanciato alcune scene, anche se è diventato problematico far capire alle ragazze d'oggi che cos'era un... marito.
Cento altre operine di Calleri
Calleri fu autore: anche d'un altro copione teatrale, "Il maestro cavaliere", in parte autobiografico, meno fortunato del primo; ma soprattutto si dedicò al teatro dei fanciulli. Per essi buttò giù con facile vena commediole "storiche" sulla giovinezza dei grandi personaggi, da Giotto a Metastasio, e bozzetti d'occasione, e canti ginnici. Le suore e le maestre di mezza Italia si spolmonavano ad insegnare parole e mossette ai bimbi in fiocco e grembiule a quadretti:
Ho veduto il legnaiuol lavorare tutto il dì:
quando sega fa così...
quando pialla fa così...
La Marianna stamattina vuole fare i tagliatelli e col re dei matterelli
bene il foglio spianerà " Ecco qua
come fa ' "- Una cuoca è la Marianna veramente come va.
1912: "La fidanzata del richiamato"
L'impresa di Libia solleticò l'estro di Carlo Coccio che, nel 1912, scodellò il libretto di un'operetta in due atti, tosto musicato da Borra, Pippo e dal magg. Beccaria. S'intitolava "La fidanzata del richiamato", e mescolava Poliziano, Tasso e Metastasio senza prendersi troppo sul serio, ignorando anche (volutamente?) l'épos di Pascoli e d'Annunzio e il frenetico paroliberismo di Marinetti che proprio quella guerra aveva rinfocolato.
Quattro i personaggi: Margherita è la fedelissima fidanzata di Gino, da cui ebbe il primo bacio su la pallida fronte il di ch'ei parti per l'ardente suolo di Libia. Ma c'è Oreste (un nome da tragedia greco-alfierana!) che si strugge d'amore per lei. Respinto, giunge all'atroce bugia. "Gino le annuncia è morto pugnando", e si offre subito di 'surrogarlo.
Olindo, fratello di Margherita, è di tutt'altra pasta: disdegna l'amore e pensa solo a far bisboccia con gli altri coscritti. Ma vàlla a far capire alla sorella, che adesso si sta disperando. Eppure toccherà proprio a lui l'annuncio insperato che rimette le cose a posto, come in tutte le commedie e operette che si rispettano:
Qui ti porto caldo caldo, Margherita, fra un istante, il garzone ardito e baldo
che di Libia ritornò.
E Oreste, mentitore per troppa passione? Perdonato, perché Margherita è troppo felice. Finalino con baci (sulla fronte), abbracci, folla di coscritti e di cittadini che sventolano bandiere cantando Tripoli bel suoI d'amore, e concludono mentre cala la tela:
Esulta Italia! senza paura
tu puoi secura guardare in faccia
co' tuoi soldati a l'avvenir!
Preso dal clima d'entusiasmo patriottico, anche il maggiore dotto Beccaria si improvvisò autore di un bozzetto militare di stampo deamicisiano, dal titolo "Attendente".
Un folto e "audace" cartellone
In quegli anni non passava quasi settimana a Carrù senza un lavoro teatrale. La sera dell'Epifania del 1911 cominciò a sciorinare il suo repertorio la rinomata compagnia V. Cobucci. In trenta e più serate passò di tutto sulle tavole del piccolo palcoscenico (un po' di meno passava sulle tavole degli attori, costretti di continuo a venire a patti con l'appetito e con il pur comprensivo albergatore).
Un cartellone "audace", che suscitò censure dal pulpito, e che oggi ci appare alquanto kitch, eppure impregnato dei gusti e della" cultura" di un'epoca, quali giungevano nelle remote periferie. Si andava dal Cantico dei Cantici a La statua di carne, da Otello a Fedora, da Spettri a Zazà, da Giordano Bruno a La morte Civile, da La moglie del dottore a Il medico delle signore, da I figli di nessuno a I martiri del lavoro, da La zia di Carlo a Santerellina, da Malacarne a Le sorprese del divorzio, da Il ponte dei sospiri a Sherloch Holmes.
Nonostante tanta abbondanza e varietà, verso questa e altre compagnie forestiere vi fu un po' d'apatia e di freddezza, tanto che s'una quinta del teatro si lesse a lungo questo grido di dolore: "Dai nemici mi guardi Iddio, che da Carrù mi guardo io".
Le colonne: Chiaffrino, Beccaria, Ghio... ma soprattutto Pippo
Ben altra accoglienza era riservata, in genere, alle uscite della filodrammatica locale. Il piacere di vedere volti famigliari imberliffati di cipria e di nero fumo, di sentire piovere da quelle bocche larghi accenti carrucesi, o di vederle starsene spalancate, 'mbajà, per un'amnesia..., quello sì era un divertimento! E poi, oh, erano bravi quei dilettanti!
Colonne della Filodrammatica erano Carletto Beccaria, segretario comunale, Ghio padre (che lì imparò l'arte del comiziante) e Ghio figlio, Giorgio Chiaffrino, bell'attor giovane che le fanciulle si mangiavano con gli occhi. Giovanni Casarico, Caramelli il fotografo e Picco per il momento erano confinati in ruoli da "bene gli altri", ma stavano maturando. E bisognava vedere con che piglio affrontavano il pubblico anche esponenti del gentil sesso, incoraggiate dalle prime conquiste delle combattive suffragettes: Rosetta Caimo, le signorine Vacchetti, la signora Rossi...
Ma il più atteso di tutti, quello che suscitava l'applauso al primo apparire e la risata al primo aprir bocca, era Pippo Vacchetti, che in quei tempi non aveva ancora scelto se far l'attore, il cantante o il pittore, e intanto faceva tutte e tre le cose benissimo. Aveva tante risorse, Pippo, e un gran talento comico, ma non disdegnava le parti drammatiche, strazia- cuore.
Quel 1911 fu l'anno di Giuseppe Giacosa: in aprile la Filodrammatica rappresentò di lui "Il trionfo dell'amore" e "Una partita scacchi", con Ciafrìn che, nelle vesti di paggio Fernando, dinanzi agli occhi tanto belli di Rosetta, Jolanda guardava e non favellava. In settembre, "dopo una settimana di studio e di prove indefesse", fu la volta di "Tristi amori", dove Pippo faceva il marito e Chiaffrino, naturalmente, l'amante.
Il teatro era stracolmo; senza posto anche parecchi prenotati. Allora cominciò a levarsi un mormorio che si fece indisponente. Prima del terzo atto dove Pippo chiese comprensione, ma ne ottenne poca; tanto è vero che Ciafrin dovette interrompere sul più bello la straziante scena d'addio fra gli innamorati e "fattosi alla ribalta, in uno scatto irresistibile dell'anima, lanciò ai disturbatori l'amara rampogna". Riscosse più applausi che mai, ma non da tutti. "Signore che sedevano nei primi posti, riferiscono le cronache, assicurano che succedevano poco lontano da loro delle cose che il tacere è bello". Che fosse solo una questione di posti a sedere, o non anche difficoltà a recepire la "sconvolgente modernità" del dramma di Giacosa? O, in definitiva un problema di educazione? Le cronache han posto solo l'interrogativo, senza fornir risposta.
In quello stesso anno la Filodrammatica perse due delle sue più solide colonne, e si sentì vacillare. Beccaria dovette far le valigie per Sala Consilina (a quei tempi gli impiegati li mandavano anche dal Nord al Sud, e non solo viceversa), e scelse per la sua serata d'addio "La morte civile", per dire con che animo si allontanava. E i suoi amici: "Che cupa e buia necropoli diventerà senza di lui la città nostra! ", lamentavano, mentre Beccaria usciva di scena e spariva all'orizzonte.
Poi, a fine anno, toccò a Chiaffrino prendere il volo verso più importanti palcoscenici. Gli offrirono medaglie e banchetti, gli chiesero di render presto glorioso il nome di Carrù, sua patria, gli augurarono buona fortuna. Non ne fece; ma non si sentì mai uno sconfitto. "Mi rompo ma non mi piego", continuò a ripetere con enfasi fino alla fine, anche quando fu costretto a vivere in due stanzucce messegli a disposizione dal Comune.
La Filodrammatica però continuò; e presentò di lì a poco" Ovrijé e nòbii " e "Delfina l òvriera ", due lavori a sfondo paternalistico popolare di Federico Garelli, con Adele e Irma Berrino, Luigina Revelli, Pia Morelli, prim'attore Lazzaro Bori, attor brillante G. Calleri, caratterista il decano G. E. Calleri; e poi Leopoldo Foro, Antonio Quaranta, G. Casarico...
1909: tutti al cinema "Ideal"
Intanto Quaglia e Burdisso avevano importato dal 1909 quella diavoleria di cinematografo, ed era già un bello spettacolo sedersi all'ingresso a vedere chi entrava e usciva, e a sentir cosa se ne diceva. "Ideal", si chiamava quel primo locale. Ad esso si aggiunse, dal maggio al giugno 1911, 1"'Iride" delle sorelle Antoniotti, che prometteva "drammi passionali ed esilaranti comiche proiettati con perfetto macchinario che non arreca alcuna molestia agli occhi". Anche qui gli accostamenti erano curiosi, a volte quasi blasfemi: I sette peccati capitali andavano insieme con La Passione e morte di Cristo e con Lo zoo di Roma.
L'arciprete tuonò anche stavolta dal pulpito contro gli spettacoli scandalosi e immorali, ma il moderato "Carrucese" li difese scrivendo: "Ci sono persino La morte di Mosè, I martiri dell'Inquisizione e l'Inferno dantesco! ".
Dàlli al café chantant, covo di laidezze
L'anno appresso, tuttavia, il "Corriere di Carrù" partì a testa bassa contro il café chantant, che definì" covo di laidezze, di oscene e ributtanti degenerazioni sensuali ", "mistificazione e profanazione dell'arte". "Si comprende la taverna, si comprende il postribolo, che almeno non con- traffanno il loro scopo; non si comprende il café chantant, che non dovrebbe essere permesso dalla legge ". Non che a Carrù ci fosse un locale del genere, né alla luce del sole, né a quella della luna, ma tanto accanimento da parte del Corriere voleva forse prevenire una propensione segreta, sospettata nel fondo di più d'un concittadino.
Anni Venti: nuova voglia di teatro
Negli anni Venti ci fu una ripresa del teatro. Pro reduci, pro orfani, pro patronato scolastico, pro minestra ai poveri si misero in scena " Addio Giovinezza" (con Pippo che impersonava Leone, quel sentimentalone di studente fuori corso), ancora il "Marito" (nel '22 e, più tardi, nel '35), il "Travèt" di Bersezio, i "Fastidi d'un Gran Om" del monregalese Eraldo Baretti.
E si continuò, con sporadiche stagioni di compagnie forestiere e con l'apporto di nuove leve locali. Pippo Vacchetti, intanto, faceva sbellicare dalle risa anche Torino con i suoi irresistibili monologhi" La predica dla dolcessa", "La stòria dj'impiegati comunai 'd Coni", "'L viage da Narssòle a Carù con sò cu-cu-cusin", e con quel" Tenor 'd Busca" che replicò per quaranta sere di fila al teatro Rossini nella rivista" I t l' has mai fait parej».
Ieri e oggi
Persino durante la seconda guerra s'improvvisarono spettacoli per sollevare il morale e, insieme, per aiutare un gruppo d'attori che, guidati dal comm. Goletti, erano sfollati a Carrù e naturalmente le tiravano verdi. Goletti aveva già recitato qui nel '29, e non ebbe da faticare a far andare d'accordo sulla scena professionisti e dilettanti; questi, anzi, ebbero modo di apprendere tanti piccoli segreti di cui fecero tesoro più tardi. Consigli illuminati e solidi appoggi vennero pure dal cav. Alesina, un altro sfollato torinese che a Carro si sentiva a casa sua meglio che se ci fosse nato. Silvio Sona e Lorenzo Cardone dalla corporatura massiccia e dalla voce stentorea, oltre a Pippo e Ghio furono gli elementi di forza.
Nel dopoguerra, prima che la Tv venisse a sconvolgere serate e buone volontà, si riaccese la ribalta. La Filodrammatica si reggeva ora su di uno statuto solennemente approvato, sul favore popolare e su una schiera di attori di varie generazioni: la signora Barbara, veterana di tanti successi, P. Ebrille, Carla Giordano, Pinuccia Ferrua, Vittoria Grosso, Mariangela Travaglio, Wanda Caula, Giampaola Castelli; ed ancora Eraldo De Giovannini, Vincenzo Chiecchio, Francesco Rossi, Giorgio Oreglia, Aldo Arese, Matteo Gazzola, G. Chiappella, Egidio Occelli, P. L. Tomatis... Per non parlare di Franco Vacchetti, che ricalcava le orme paterne. Gli scenari erano opera del pennello di De Giovannini; le regìe erano firmate da Alberto Botto; le coreografie da Antonio Massimino, che fungeva pure da suggeritore. Ma una delle colonne era Angelo Oreglia, barbiere, giocatore di bocce e attore di vaglia. "Il piccolo parigino" e "La gloriosa canaglia" furono i suoi due maggiori successi, replicati in una vasta plaga. Per accrescere l'effetto di quest'ultimo dramma, il curato don Dragone ci rimise un dito, a causa d'un petardo che aveva fatto scoppiare dietro le quinte per simulare un combattimento della Legione Straniera.
Pippo Vacchetti nella macchietta d'un contadino arguto.amante del buon vino. Così lo reclamizzarono i manifesti del teatro Rossini a Torino, dove Pippo recitò con i maggiori comici dell'epoca, Macario compreso. Pippo amava anche molto la poesia: era amico di Nino Costa e dei Brandè e conosceva a memoria 400 poesie piemontesi.
Ida Barbara, simpatica e spigliata protagonista sel "Paese dei campanelli".
Mingherlina, briosa, voce squillante, Ida Barbara trascinava il pubblico all'entusiasmo sia che interpretasse drammi o comiche, macchiette o riviste. A sei anni già imparava nella natia Pinerolo i primi passi di danza; dopo le prime particine in "Gheisa" e "Margherita 'd Cavarett" le compagnie' Casaleggio, Verdirosi, Alessio ne chiesero più volte la collaborazione. Ida fu forse tra le prime, dopo la sua amica Giorgina Goletti, a cantare in Italia "Le campane di S. Giusto": la cantò in abito tricolore anche dinanzi la famiglia reale.
Il matrimonio e la venuta a Carrù, non l'allontanarono dalle scene. Suoi cavalli di battaglia: Scampolo, I tre sentimentali, Il Passerotto, Peg del mio cuore, La zia di Carlo; e poi Le tre Grazie, Fervore di Gioventù (due vaudevilles musicati da Ignazio Vacchetti), La festa in montagna, Il piccolo parigino, I Fastidi d'un Grand Om e la rivista" Amor, amor!", scritta da Franco Vacchetti. Nel '56 fu presidentessa della Filodrammatica.